Il teatro Odeon di Taormina accoglie ancora una volta la bellezza della cultura di qualità. Ieri, 1 agosto, la prima delle due serate – si replica stasera alle 21:30 – dedicate al “Concerto per l’Etna”.
«Idda a Muntagna», è andata in scena in un tour fatto di contaminazioni letterarie, di immagini, sottolineate dalla partitura musicale. Tutto per renderle il giusto tributo. La nostra Signora di Sicilia, una mammella che vomita lava e fuoco, dona vita, e impartisce il ritmo temporale del nostro stare al mondo, in questa terra che è femmina di nome e di fatto.
L’Etna è madre, sorella, amica; come la luna ha una faccia luminosa e una oscura. L’Etna ci costituisce nei tessuti e nelle ossa, ci sussurra storie di poco conto e di ampia grandezza. Parla la lingua delle civiltà e degli abitanti che con fatica, sangue e sudore ne hanno timore e rispetto. Questa è terra di pescatori, contadini e pastori in cui il fuoco sacro da Muntagna è fascinazione, incanto, terrore.
Un omaggio all’Etna, in una prima assoluta per una produzione della Fondazione Taormina Arte Sicilia. Uno spettacolo composto di ritmi lenti e di ritmi incalzanti, in un equilibrio di stile tra musiche, immagini e narrazioni, che si tramutano nel farsi e disfarsi delle ore dei giorni e delle stagioni. La presenza dell’uomo che vive e la respira si osserva nelle opere ritratte sotto forma di arte.
La voce narrante, plasmata dai testi scelti e dalle immagini di Giuseppe Riggio, dona forme plastiche od ossute come i fianchi del vulcano. La scelta va da Verga, che ne dispone l’incipit, e procede via via con De Roberto, Riggio, Calì, Brydone, Yourcenar, Drago, per dirne alcuni. Il corpo viene costruito dalla voce recitante di Giampiero Cicciò e dalla voce fuori campo di Sonia Barbadoro, nella simbiosi di maschile e femminile che caratterizza l’Essere stesso.
La cavea dell’Odeon, con le sue pietre, risuona, vibra e s’accorda al fagotto di Antonino Cicero e al pianoforte di Luciano Troja, a cui è stata affidata la cura della composizione. I testi –, orchestrati da Cicciò in varie, fluide o increspate modulazioni dall’italiano al viscerale vernacolo che vibra e batte – rimbombano dalle orecchie allo stomaco, somigliano ai resti di insolita archeologia.
All’apparenza abbandonati, qua e là negli spazi della cavea, per poi esser raccolti come fiori di vita, donati al pubblico e alla dama che sa vestire di nero, di rosso, d’arancio, di polvere e dell’oro del sole. Abiti d’azzurro o di verde; di grigio che cade nel giallo vengono confezionati nella messa in scena tramite le immagini di Giuseppe Riggio, proiettate sullo schermo.
«Immagini e parole» per far assaporare il senso della fotografia che diviene «narrazione nella narrazione», dentro al gioco che balza agli occhi e s’adagia nelle orecchie, prima di affondarci dentro.
Un esempio posto in atto qui a Taormina anche dal fotografo Roberto Mendolia alias Rogika, il quale ne ha fatto tema per i suoi percorsi tra fotografia e letteratura. Una inconsapevole unione di intenti, dunque, tra coloro che hanno a cuore la Sicilia, puntando dritto al cuore di chi è siciliano e di chi non lo è, in un dialogo universale dove Etna, Sicilia sono epifanie della greca Natura, rio energetico e creativo.
A chiudere la prima tappa del tour, che andrà nuovamente in scena stasera alle 21.30, la proiezione del video dell’incomparabile Giovanni Tomarchio, cullato dalle musiche di Cicero e Troja.
A chiudere invece il mio articolo – omaggio allo spettacolo e all’Etna – un passo, tratto da un racconto di Milena Privitera, presente in La Sicilia nel cuore, Algra editore. Un testo che narra della Sicilia, vista dagli occhi delle «viaggiatrici».
Uno dei racconti, vede protagonista Frances Minto Elliot e ciò che provò innanzi all’Etna. Un incontro al femminile, un dialogo tra donne in un linguaggio comune alle donne:
Il lungo tragitto prima delizioso per la bellezza dei vigneti, lussureggianti d’uva ancora in fiore e pampani, boschetti di cedri, limoni, aranci, frutti d’oro e porpora, divenne davanti a lei tutto a un tratto selvaggio. Frances si voltò a sinistra, e per un’estensione che l’occhio non giungeva a circoscrivere, vide la lava del 1669 arida, con qualche ciuffo di ginestra che qua e là ne rallegrava il nerume. […] L’Etna, in tutta la maestà dei suoi undicimila metri di altitudine, tagliava il cielo azzurro come l’acciaio, e scendeva sino al mare attraverso una terra fertile di storia antica.