Venerdì 8 gennaio 2021, l’associazione fotografica Taoclick, ha inaugurato la nuova stagione di “Camere con Vista”, ospitando lo street photographer Diego Bardone. “Camere con Vista” è il format a cura dell’associazione fotografica “Taoclick”, di Rocco Bertè “Foto e Video”, di “Rogika’s Friends” con la collaborazione del media partner “JonicaReporter”. La consolidata squadra è composta da: Alfio Barca, Rocco Bertè, Roberto Mendolia (Rogika) e Augusto Filistad.
Una bella ripartenza, questa nuova stagione, che ha aperto ancora una volta le finestre sulle camere di appassionati e professionisti per dialogare intorno e dentro alla fotografia. Arte, linguaggio, veicolo espressivo ed occhio attualissimo sulla società e sul mondo, oggi più che mai complementare alla scrittura, a tratti decisa ad occuparne il campo, considerato canonico e inviolabile.
Le novità e gli accadimenti dal mondo delle fotografia: “Essere Umane” – Ad aprire il 2021, dopo i consueti saluti da parte di Roberto Mendolia (Rogika) e del gruppo di “Camere con Vista”, è stato Alfio Barca, attento alle manifestazioni in giro per l’Italia, in fase di sospensione a causa delle restrizioni anti contagio, con l’auspicio che si torni a visitarle le esposizioni e le gallerie d’arte, e i musei. In ciò, concordo con Michele Smargiassi. Il bello dell’andare alle mostre non è solo la visione delle opere, perché è possibile vedere con calma le foto sul catalogo o sul testo pubblicato, per trarne fuori il succo migliore. Ciò che manca, come manca l’aria che mozza il respiro non solo per effetto dell’uso costante delle mascherine, è l’incontro – vero, tangibile, reale – con gli altri. Perché noi non siamo isole, o lo siamo quel tanto che basta a trasformarci in arcipelaghi, perciò corriamo il rischio di divenire specchi vuoti senza la possibilità di vederci nell’altro. I sorrisi, le mani, gli odori, gli sguardi – che tanto, oggi, sono divenuti dominanti, per dire e per dirci – parlano. I luoghi di cultura in questo Paese devono tornare ad avere la priorità. Noi tutti abbiamo bisogno di rinfrancare lo spirito altrimenti la speranza sarà un mozzicone gettato all’angolo di una strada.
Ben venga dunque lo sprono a non oscurare l’attenzione. A questo servono gli incontri, riadattati on line –, considerate le problematiche del momento – di “Camere con Vista”. Il 28 novembre 2020 e sino al 20 febbraio 2021, avrebbe dovuto esser visitabile ai Musei San Domenico di Forlì, “Essere Umane”, la mostra curata da Walter Guadagnini. Si pensa già di prorogarne l’esposizione affinché il pubblico possa finalmente beneficiarne. Un numero che sfora le 250 foto, in un’esposizione, con protagoniste le donne che hanno contribuito ad arricchire il mondo della storia. Un lungo viaggio per arco temporale che ha portato alla ribalta la fotografia, vista dalle donne, quale mezzo di comunicazione immediato, accessibile a tutti; democratico. La mostra è articolata in tre sezioni: Dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, sono presenti le immagini di Dorothea Lange, Margareth Bourke-White, Berenice Abbott, Lee Miller, Lisette Model e Ruth Orkin, le europee Tina Modotti, Giséle Freund e Inge Morath. Dalla ricostruzione post-bellica alle questioni di genere, e il ruolo della donna nei paesi non occidentali. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta: le rivoluzioni, la guerra del Vietnam, l’affermazione della società dei consumi, la mafia. Qui le fotografe sono divenute parte attiva. Tra le artiste di questo periodo: Susan Meiselas, Eve Arnold, Annie Leibovitz, Diane Arbus, Lisetta Carmi, Carla Cerati, Dayanita Singh, Graciela Iturbide, Paola Mattioli, Claudia Andujar. Infine, negli ultimi anni del Ventesimo secolo e i primi del Ventunesimo, lo sguardo si allarga e si orienta a porre in luce le culture extra-occidentali, che si aprono ad una centralità prima sconosciuta, in cui continua ad essere questione pressante e ineludibile il ruolo femminile all’interno dei diversi contesti socio-culturali ed economici. Qui le protagoniste sono fotografe africane come Zanele Muholi, asiatiche come Cao Fei, iraniane come Shadi Gadhirian o Natasha Tavakolian, europee come l’italiana Silvia Camporesi, la ceca residente in Germania Jitka Hanzlova, la giovanissima russa Nanna Heitmann. Donne che parlano linguaggi differenti, unite sotto l’egida della fotografia, divenuta forma di un linguaggio globale dalle fondamenta etiche universali.
DIEGO BARDONE. Il fotografo che usa l’ironia come arma di de-costruzione – A Roberto Mendolia, in tandem con Rocco Bertè, è stata affidata la parte autoriale del format, mentre Augusto Filistad ha curato il dietro le quinte con la gestione dei commenti e la regia.
Anzitutto, consiglio come sempre, di andare a curiosare nei siti dei fotografi e delle fotografe. Lì avrete l’opportunità di entrare un po’ più da vicino nel loro mondo. Quello di Bardone è:
www.diegobardonephotographer.com
Ciò che colpisce di lui, è la grande disponibilità al dialogo e quel fantastico e frizzante senso dell’ironia, che dice le cose come stanno ma le vela di un pizzico di malinconia. Un’ironia che de-costruisce, perché rade al suolo dogmi e certezze, riportandoli a un materiale meno apparente, quotidiano, che come direbbe Frank Cancian “trova lo straordinario nell’ordinario”. La fotografia di Bardone de-costruisce, investendo il campo urbano antropizzato, ma non lo fa con l’intento del documentarista che porta a casa il reportage. Bardone fa ‘Street’ e dunque, non ha già prefigurato l’obiettivo e il termine del viaggio; è ciò che gli proviene dal cammino a costituire il senso delle sue immagini.
Ma andiamo con ordine e partiamo dai luoghi e dai punti di origine che poi sono anche quelli nuovi punti di arrivo.
Di sé, nella nota biografica, appunta:
Sono nato a Milano nel 1963. La mia passione fotografica è cresciuta quando avevo circa 25 anni, ho lavorato per un giornale italiano per alcuni anni, poi la vita mi ha portato “altrove” ma la mia passione non è mai morta […]. Per me non c’è niente di meglio che trovarsi davanti a una fotografia in bianco e nero: non puoi scappare, potresti chiudere gli occhi ma alla fine assicurati che non scompaia come un’immagine su uno schermo e puoi solo guardarlo. Un po’ di nero, un po’ di bianco e al centro una scala di grigi senza fine… Questa è la vita. Questo è il modo per mantenere viva la nostra memoria per i prossimi anni. Sono io, con le mie passioni e le mie piccole opere. Robert Doisneau, Izis Bidermanas, Edourd Boubat e Mario Giacomelli, solo per citarne alcuni, quelli che amo di più…
Diego Bardone si avvicina alla fotografia a metà degli anni Ottanta, quando collabora con «Il Manifesto» e con due piccole agenzie per alcuni anni. Gli accadimenti della vita lo portano altrove. Un’interruzione lunga vent’anni, dopodiché la fotografia lo richiama a sé. Di nuovo attivo da 15 anni, lui stesso durante l’incontro ha detto: «Son tornato a fotografare come quando ero un ragazzino ma ora sono più vecchio». Ci ha tenuto, più volte, a precisare che lui fa Street e quindi la sua è una fotografia “Candid” – nessuna posa, nessun meccanismo di montaggio scena –. Una fotografia che guarda gli altri e li fissa in movimento o in apparente stato di quiete. Fotografia di strada e fatta nella strada. Tanto che è sempre lui ad aggiungere: «Sono uno spettatore non pagante nel teatro della vita». Tra i suoi riferimenti oltre a quelli citati nella biografia, ci sono Cartier-Bresson, Erwitt, Berengo Gardin, Branzi, Uliano Lucas, Tano D’Amico, Francesco Cito. Inoltre ha fondato insieme a Bruno Panieri, Stefano Pia, Roberto Pireddu e Roberto Ramirez il gruppo fotografico “The Strippers”.
Osservare e narrare per immagini la vita di ogni giorno, spinge i passi di Bardone:
Abbiamo tutti gli stessi volti, le stesse gioie, le stesse speranze: io sono loro, loro la trasposizione in immagini della mia allegria vagabonda. Vorrei dimostrare che la semplicità è sinonimo di bellezza, vorrei mostrare, come era solito dire Doisneau, un mondo “gentile”, un mondo che amo e che mi renda in qualche modo felice.
Il fotografo ha all’attivo esposizioni e pubblicazioni ma qui voglio entrare più a fondo di uno dei suoi ultimi lavori, il volume fotografico, Street Life Milano, Edizioni del Foglio Clandestino, del 2018. Le traduzioni sono di Donatella D’Angelo; i testi di Maurizio Garofalo, Bruno Panieri, Stefano Pia, Roberto Pireddu, Roberto Ramirez, Melina Scalise, Francesco Tadini, e il Photo Editing è di Maurizio Garofalo. Proprio Garofalo – giornalista, art director e photo editor – in merito alla raccolta ha dichiarato:
«L’essere umano è una presenza costante e centrale nelle immagini di Diego Bardone, Milano anche; ma più guardo queste immagini, più mi convinco che la strada, la tantissima strada percorsa da Diego, altro non è che un viaggio dentro se stesso. E forse questa è la definizione che cercavo per la Street Photography».
Nel testo ci sono più di cento immagini in bianco e nero raccontano Milano in cui l’essere umano è presenza costante e centrale. In queste immagini il fotografo, un po’ ironico, un po’ poetico e visionario, s’approccia con garbo e rispetto verso i soggetti fotografati. Bardone ci regala, secondo quanto espresso da Francesco Tadini, fondatore della Casa Museo Spazio Tadini e ideatore di PhotoMilano:
«Lezioni poetiche milanesissime, intrise di ironia e realismo al tempo stesso, quali le parole di Delio Tessa – o le surrealtà di Dino Buzzati! – per tradurre le migliaia di occasioni in lampi di racconto».
Ho chiesto a Bardone, quanto abbia adattato il suo modo di fotografare al tempo del Covid, e mi ha detto che in realtà in un primo momento era anche lui spiazzato. Fotografare non più volti, ma mascherine, non lo convinceva. Essere costretto a regole di convivenza secondo ritmi da coprifuoco, che prima immaginavamo appartenessero ai film apocalittici americani, non lo soddisfaceva. Era entrato in sospensione pure lui, ma poi, così come è nella ‘Street’, accade che sei per strada, e non sei uscito mica per fotografare. Ti trovi in compagnia di un amico. Magari, pure se è da asporto, un caffè lo prendi volentieri, quantomeno per tentare di riappropriarti di una frazione di dispersa quotidianità. Invece, lui che era con Tadini, proprio da quei camerieri con le mascherine ha ricevuto la benedizione ed è tornato a fotografare. E se qualcuno avesse voglia di farsi sedurre dalla ‘Street’, Bardone ha detto che bisogna andare in strada, entrare dentro alla realtà, non abusando dello zoom ma preferendo una focale fissa. Non si deve smettere mai di studiare e far costantemente bagni di umiltà, che fanno restare con i piedi per terra ma non impediscono di immaginare.
Allora mentre lui parlava, io risentivo Enzo Jannacci quando cantava:
«Tu non lo sai, perché non vai mai in giro… Perché per arrivare in piazza Duomo ci vuole mezzora e devi prendere due tram. Ma io, quando alle otto torno a casa dal lavoro… Cammino per Milano e mi sembra di essere un signore. Tu non lo sai ci sono tante automobili, di tutti i colori e di tutte le grandezze. È pieno di luci che sembra di essere a Natale e sopra il cielo è pieno di biglietti da Mille».
Così cantava, nel 1964, Enzo Jannacci, in “Ti te se no”. In dialetto milanese, lingua difficile ma dolce e musicale come quella francese. Una Milano che Bardone rievoca, perché nelle sue immagini è presente l’attuale, il contemporaneo, ma vi è strenua ricerca di memoria e di indizi, come quelle frasi dietro le fotografie di famiglia o nelle cartoline di un tempo. E quando Bardone parlava degli album di famiglia, che raccontano chi siamo e parlano della storia delle nostre famiglie, quindi anche di noi, io lo sentivo più forte Jannacci. Ciò nonostante l’atmosfera sia cambiata, ma i luoghi semplici e comuni frequentati ogni giorno, e quell’umanità chapliniana, esistono ancora.
Epperò quando parlava del Flâneur, là nell’immediato, ho pensato alle comunanze tra Parigi e Milano, con le Gallerie. Di conseguenza, se due più due fa quattro, non poteva che venirmi alla mente chi ha scritto parole mirabili su questa poetica e struggente figura: Walter Benjamin.
Chi è il Flâneur? Un vagabondo, un perdigiorno; uno dedito ad oziare? In francese, il Flâneur, secondo la tradizione cara alla letteratura dell’Ottocento, è un intellettuale che trascorre il suo tempo vagando senza meta e senza scopo nello spazio cittadino. Osservando quasi in stato ipnotico, e all’apparenza distratto, la folla. Tra i primi, ne ha vestito gli abiti e ne ha detto Baudelaire, che ha descritto il Flâneur come un “botanico da marciapiede”, “uno che porta al guinzaglio delle tartarughe lungo le vie della città”. Un “maledetto” che appare folle anche nella straniante contemporaneità. Non a caso si tratta di una una figura dinamica. Un passeggiatore instancabile, che percorre itinerari casuali, mai programmati. Animale urbano, è un solitario attratto dalla folla ma che la fugge allo stesso tempo, secondo le considerazioni di Edgar Allan Poe, ne L’uomo della folla.
In Parigi capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, nell’edizione italiana Einaudi del 1986, a cura di Giorgio Agamben, Benjamin scrive:
«La strada conduce il flâneur in un tempo scomparso. Per lui ogni strada è scoscesa. E scende se non fino alle Madri, tuttavia in un passato, che può tanto più ammaliare in quanto non è il passato suo proprio, privato. Eppure esso resta sempre il tempo di un’infanzia. Perché, però, quella della sua vita vissuta? Sull’asfalto, dove egli cammina, i suoi passi destano una sorprendente risonanza».
Ed ecco, allora che Diego Bardone, nella sua Milano, fa esercizio della flânerie; circondato dalle voci del passato, è in costante ricerca dell’invisibile, per sottrarlo all’oblìo e farlo tornare ad essere.