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sabato, Settembre 7, 2024

EMPATIA: DAGLI ORSI BIANCHI AGLI ESSERI UMANI

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Foto dal Web

Ogniqualvolta leggo i giornali ho sempre in mente le domande: «Quanto ci ha trasformato il persistente stato di crisi pandemica? Quanto davvero siamo cambiati, rinnovandoci per vivere tutti in un maggiore stato di sintonia con gli altri e nel mondo?»

Le risposte alle due precedenti domande hanno il sapore dell’amaro in bocca. La maggior parte di noi ha imparato ben poco, forse convinta che tutto passerà e tutto tornerà come prima. Non è così. Il cambiamento è un processo lento e lungo, e penso che questa sia l’occasione per far i conti con ciò che siamo diventati e con ciò che aspiriamo ad essere.

Non sono mai stata una persona cinica; in realtà mi ha sempre fregato quella sensibilità che nelle scienze psiconeurologiche e del comportamento viene definita «Empatia». Secondo molti un dono e al contempo un fardello. Ad essere onesta per me è una gran rottura di ovaie vorticanti. Se poi ci mettete pure che raggiunta un’età delicata in cui, per via degli ormoni e del tempo che passa, le emozioni sembrano amplificarsi sino a esploderti dentro, da me il cinismo non potrebbe mai attecchire.

Mi permetto di riportare la mia esperienza in una miscela di sentimenti e forze interiori perché – tornando alle notizie apprese e ai giornali – non so se essere più abbattuta o più speranzosa che la selezione naturale faccia il suo corso.

Su «Il Messaggero» del 12 marzo scorso ho appreso di una genialata cinese e “genialata” non è un complimento, anche perché in questi ultimi anni i cinesi hanno imparato a stupirci con tanto altro, e sapete bene a cosa mi sto riferendo. Bene, ecco quanto ho letto:

«Un hotel cinese di Harbin, dove orsi polari sono esibiti 24 ore su 24 ai clienti, è finito nelle mire degli animalisti. “Harbin Polar Land” si trova nella Cina nord-occidentale, celebre anche per l’annuale festival di sculture nel ghiaccio, che attirano moltissimi turisti. In un video diffuso dagli attivisti si vedono gli orsi, una specie protetta, fotografati dagli ospiti dell’albergo, in uno spazio piuttosto ristretto, che consiste in finta roccia e un pavimento dipinto di bianco a simboleggiare il ghiaccio. Le organizzazioni per i diritti degli animali hanno gridato allo scandalo, e chiesto ai turisti di stare alla larga da queste strutture che “approfittano della sofferenza degli animali”. Gli orsi polari devono stare nell’Artico, dove hanno a disposizione migliaia di chilometri di spazio, e non negli zoo o nelle scatole di vetro degli acquari, e certamente non negli alberghi, ha detto il vice presidente di Peta Asia, Jason Baker».

Immaginate cosa mi sia passato nella testa dopo che di nuovo la medesima notizia è stata diffusa dal «Tg Uno» in prima serata. Sinceramente, già ero disgustata, ma vedere le immagini di queste meravigliosi esseri viventi, privati della libertà per divertire ricchi e facoltosi umani, mi ha fatto incacchiare di brutto. Se penso che in questo momento per colpa degli uomini – tra i principali responsabili del riscaldamento climaticonell’Artico, gli orsi bianchi sono ridotti alla fame sopravvivendo in un habitat, pressoché in via di sparizione a causa dello scioglimento dei ghiacci, e poi apprendo che la soluzione adottata da questi “scienziati del consumismo”, per preservarne la specie, è quella di farli diventare fenomeni da circo, mi verrebbe voglia di ospitare gli orsi nelle camere dell’hotel e chiudere quegli “st…” di uomini al loro posto. Vorrei proprio vedere che gran divertimento.

Siamo stati anche noi privati della libertà di movimento – i cinesi per primi – e lo siamo ancora, tanto che dovremmo apprezzare ogni singolo alito di vento; ogni battito d’ali e ogni nube nel cielo. Dovremmo aver imparato a «ringraziare» se siamo ancora qui, non scordandoci che ciò è possibile anche per merito dell’immenso sacrificio altrui. Però ancora oggi, al contrario, non abbiamo imparato niente!

Passo quindi per doverosa consequenzialità all’altra notizia, che bilancia quella precedente, dato che per nostra immensa fortuna ci sono persone che si stanno adoperando per salvarci il culetto e non farci morire.

Sulla Pagina «Facebook» di Che tempo che fa, ieri ho letto quanto segue:

«Gli infermieri e medici italiani sono stati candidati al Nobel per la Pace 2021. Il personale sanitario italiano è stato il primo nel mondo occidentale a dover affrontare una gravissima emergenza sanitaria, nella quale ha fatto ricorso ai possibili rimedi di medicina di guerra combattendo in trincea per salvare vite e spesso perdendola loro. Ho candidato il corpo sanitario italiano al premio Nobel per la Pace – ha dichiarato Lisa Clark – poiché la sua abnegazione è stata commovente. Qualcosa di simile a un libro delle favole, da decenni non si vedeva niente del genere. Il personale sanitario non ha più pensato a se stesso ma a cosa poteva fare per gli altri con le proprie competenze».

Dopo aver letto la notizia, ho provato una sensazione di affetto e di orgoglio ed ho pensato che noi italiani «cia sapemu», nel senso che siamo capaci di farcela anche quando abbiamo l’acqua alla gola. Allora ho pensato all’empatia, idea contenuta anche nelle linee educative a partire dalla scuola dell’infanzia, ed ho compreso una volta di più che la dimentichiamo troppo spesso. Persino nelle nostre relazioni sociali, siamo più propensi a dire: «Ma sì, che vuoi che mi freghi, ci penserà qualcun altro». Eppure c’è chi ha scelto di battere una strada diversa, non solo per dovere professionale ma perché è stato in grado di tirar fuori il proprio lato empatico.

Nel Dizionario Treccani al lemma empatia, così è scritto:

 «In psicologia, in generale, la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Più in particolare, il termine indica quei fenomeni di partecipazione intima e di immedesimazione attraverso i quali si realizzerebbe la comprensione estetica».

Uno degli autori di uno studio sui soggetti con predisposizione all’empatia, James Coan, ha spiegato:

«La correlazione tra me e l’amico è molto simile. La scoperta dimostra la notevole capacità del nostro cervello di modellarsi per essere più simile a chi ci è vicino. La gente vicino a noi diventa una parte di noi stessi. Non è solo una metafora ma una cosa che avviene davvero. Sentiamo il pericolo quando un nostro amico è in pericolo. Questo però non avviene quando uno sconosciuto è in pericolo».

Secondo quanto viene riportato nell’ Enciclopedia di Psicologia Sociale, tale è il significato di empatia:

«Spesso si definisce empatia la comprensione dell’esperienza di un’altra persona, immaginando se stessi nella stessa situazione di quella persona. Si percepisce l’esperienza dell’altra persona come se la si stesse vivendo su di sé. In realtà viene mantenuta una distinzione tra sé e gli altri pur concentrandosi sui bisogni personali dell’altro. La simpatia, al contrario, implica l’esperienza di essere mossi o di rispondere in sintonia con un’altra persona».

Essere empatici, e vivere secondo un «agire empatico», non include l’annullamento di se stessi ma prevede l’arricchimento nell’accoglienza dei bisogni e delle difficoltà altrui, al fine di permettere un effettivo miglioramento delle condizioni e della crescita personale dei vari soggetti coinvolti nella relazione.

Ecco perché sempre di relazione qui si parla, in cui non si esclude ma ci si confronta nell’inclusione. Questo quindi vuol essere un promemoria per ciascuno, dato che ci troviamo in Quaresima e la Pasqua si avvicina. Infatti, se pensiamo a Gesù, fu tra i primi a comprendere il potere dell’empatia per salvare corpo e anima.

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