
Il 22 novembre, nella Saletta Conferenze dell’archivio storico di Taormina, il terzo degli appuntamenti di “Immagini & Parole”, 2019-2020, ha chiuso idealmente il ciclo al femminile, apertosi con gli incontri dedicati alle fotografe di “Sguardi di Donna” come ha sottolineato Roberto Mendolia (Rogika), il quale ha tenuto nuovamente a ringraziare l’assessorato alla Cultura di Taormina rappresentato dalla Prof.ssa Francesca Gullotta, l’associazione “UNITRE-Taormina” che sin dall’iniziato ha sostenuto le iniziative legate al mondo della fotografia e naturalmente, il gruppo di variopinti fotografi dell’associazione “Taoclick”. Sponsor degli incontri “FDD” di Caterina Lo Presti. Rogika ha dichiarato anche che «la fotografia va oltre la macchina fotografica. Essa è condivisione e confronto» e ha passato la parola alla sua ospite.
Dalle note biografiche di Fia Zappalà si apprende che è:
«Socia ACAF (Associazione Catanese Amatori Fotografia) dal 2011. All’interno dell’associazione ha avuto modo di approfondire e ampliare la sua conoscenza nell’arte fotografica, partecipando a diverse mostre e a vari concorsi. Nel 2015, una sua foto “di street” è stata pubblicata sulla rivista “National Geographic”. Vive a Pedara e “Gente di Sicilia” è un progetto che porta avanti da ben otto anni».
Di Fia, ciò che colpisce è il desiderio di far parlare le sue immagini e ciò che rappresentano. Ha un atteggiamento umile, nel senso che in questo roboante universo dove la gente si crede all’apice della carriera solo perché ha numerosi “seguaci” sui social, lei ha i piedi ben piantati per terra. La Terra di Sicilia. E, mentre narra della sua esperienza, uno dei termini ricorrenti oltre a Sicilia, è quello di “fotoamatrice”:
Io sono una fotoamatrice di nuova generazione, nel senso che sono partita da digitale e mi manca il rapporto con l’analogico, che ho intenzione di recuperare quanto prima possibile. La mia può essere definita una “fotografia all’antica”. I miei modelli sono da sempre Bresson e Scianna con la loro fotografia che non si fa più. Ho iniziato nove anni fa, da grande. Prediligo fotografare la gente della nostra terra. Un tipo di Sicilia dei miei tempi, che sta scomparendo. Questo pomeriggio, ho portato con me una rassegna di foto per “Gente di Sicilia”. Un lavoro che è in itinere, e le foto sono accompagnate dalla musica. Fotografo essenzialmente per me. I miei sono “ritratti ambientati” e devo dire che non ho mai avuto difficoltà a fotografare le persone che in questi anni ho incontrato lungo il mio cammino. Su questo lavoro mi è stato chiesto di fare un testo, ma ancora non ho deciso, ci sto pensando. Io non so se ho fatto qualche buona foto, ma so solo di essermi tanto avvicinata alla gente, alla gente della mia Sicilia, dai bambini agli anziani. Ho ascoltato le loro vite, ho giocato, ho riso e mi sono immalinconita con i loro ricordi. Gli anziani mi raccontano la loro vita. Poi chiedo se posso scattare oppure scatto mentre ci parlo. E fotografo ad esempio gli uomini con gli animali che fanno parte della comunità. Sembra una Sicilia scomparsa. Io voglio recuperare queste identità.
In effetti, durante la visione delle immagini, ci si ritrova ad osservare una realtà destinata alla dissolvenza. Anche i colori testimoniano il tempo che fu e il tempo chiede pegno. C’è il Barbiere di Randazzo che ha 94 anni ed è ancora in attività. Oppure il vecchietto che si fa radere e dietro di lui, quasi con un’entrata in scena fuori programma, è appeso il poster di Elvis. Nelle foto, di Fia Zappalà, scorre il cambio del costume e coesiste la multi cultura con il nostrano. Ci sono anche i ragazzi “carusi e picciotti” che portano dentro i riti antichi delle generazioni trascorse, sebbene oggi abbiano smarrito il senso del gioco in strada, preferendo il display di un telefonino. Ma nei paesi, in quelli che resistono da “borderline”, i ragazzi stanno ancora per strada e partecipano ai riti collettivi. Che dire inoltre della foto dell’uomo incartocciato con lo sguardo trasversale e il telefonino in mano? Parla, la foto, una lingua senza tempo.
La fotografa, prosegue nella narrazione, spinta dalle emozioni e da un coinvolgimento che sembra provenirle direttamente dal ventre della terra. La “sua” Sicilia:
Prima andavo a fotografare da sola ma ora sono in associazione per condividere e confrontarmi sulle differenze. Ognuno ha un modo diverso di vedere lo scatto. Non vivo vincolata a un progetto perché per me la foto è hobby e relax. Sto creando un archivio e da qui potrebbero uscire vari progetti. Riguardo invece alla foto, inserita nel “National Geographic” in versione cartacea, è stata scelta dopo una selezione e non avrei immaginato che scegliessero me. La foto è stata scattata durante una delle mie visite catanesi. La zona è quella del Monastero delle Benedettine, le suore di clausura. Lo scatto ha immortalato una delle suore intente a ricamare che, compreso di essere stata fotografata, ha deciso di uscir fuori per raccontare la sua storia. Lei che dai 12 anni ha trascorso la sua vita nel monastero. La sorella non immaginava certo che il suo volto avrebbe fatto il giro del mondo.
Fia Zappalà sarà pure una fotoamatrice, però nelle sue foto c’è un messaggio chiaro e di sostanza che la tecnica può solo mettere in risalto: testimoniare e non far perdere le nostre peculiarità in una ricerca che ha un notevole valore antropologico e sociologico. E a questo motivo di fondo, può essere ricondotto anche il suo primo lavoro audiovisivo, dedicato ai “Misteri di Trapani” con la processione che dura 24 ore, dal Venerdì Santo al Sabato Santo e dove tutti i partecipanti, in una liberazione catartica, si abbracciano abbandonandosi al pianto. Per Fia Zappalà, le feste religiose rappresentano una parte importante del tessuto di quest’isola, fatta di contrasti e giochi di ombre, che velano la luce per far emergere il primordiale. Qui, si riallaccia il vincolo con Scianna, che fu scoperto da Sciascia e condotto all’interno di ogni fessura presente nei luoghi e nella gente di Sicilia. Da quelle ferite umane, sgorga lo spirito di un popolo che balla e traballa sotto il peso delle vare e dei ceri gocciolanti. Gente che ha sempre qualcosa da espiare e di cui pentirsi, perché le hanno insegnato che è frutto di peccato, con una colpa nutrita e ingigantita dalla religione. La colpa di essere a Sud e di essere un ponte dove tutti son passati e passeranno. La colpa che richiede di non alzare troppo il capo e di espiare. E allora giungono in soccorso le feste religiose, che illudono di essere accettati in luoghi di delizie attraverso i voti e le grazie e che, una volta terminato un ciclo, richiedono nuovo sacrificio e nuova espiazione dei peccati. Anche questa è la “Gente di Sicilia”, ed è quella cantata da Sciascia per la gente di Racalmuto in Ad un paese lasciato:
Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi,
delle tue vecchie case che strozzano strade,
della piazza grande piena di silenziosi uomini neri.
Tra questi uomini ho appreso grevi leggende
di terra e di zolfo, oscure storie squarciate
dalla tragica luce bianca dell’acetilene.
È l’acetilene della luna nelle notti calme,
nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra;
e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade
coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte.
Nell’alba, il cielo come un freddo timpano d’argento
a lungo vibrante delle prime voci; le case assiderate;
in ogni luogo la pena di una festa disfatta.
E i tramonti tra i salici, il fischio lungo dei treni;
il giorno che appassiva come un rosso geranio
nelle donne affacciate alla prora aerea del viale.
Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro,
pietà ed amore trovavano antiche parole.
Eccolo il legame tra Fia Zappalà e Scianna e Sciascia, di cui ricorre il trentennale, e gli altri siciliani “illustri” e meno illustri: essere “Gente di Sicilia”! Marchio di condanna e simbolo di salvezza.