Mi piace rileggere le storie e le leggende legate alla nostra millenaria tradizione. Sin da bambina sono stata tenuta per mano dalle narrazioni lette e orali dei miei nonni, delle mie zie, dei miei genitori. Ho imparato a legger presto, supportata da quei racconti, fatti in tempi di pausa dal lavoro, o d’estate sotto la frescura di un pergolato interpuntato da gelsomini odorosi. Talvolta, in questo periodo strampalato, penso ai bambini incollati agli schermi dalla DAD o a fare giochi virtuali. Mi domando quanti di loro, oggi, conoscano quei racconti e non so perché mi è più volte tornato alla mente, Giufà. Di lui e della luna, voglio parlarvi.
Tra i più amati e citati personaggi della tradizione popolare di vari paesi – non solo la Sicilia –, Giufà incarna la figura “du babbu” e dello sciocco. Caratteristiche che tuttavia usa a proprio vantaggio, mostrando furbizia, capacità di adattamento e sagacia nel risolvere le situazioni che appaiono più disperate. Coinvolto in esilaranti avventure, le sue peripezie conducono il lettore a sorridere e a riflettere sui numerosi strati dell’animo umano. Giufà si lascia irretire dalle situazioni che lo portano a guai certi. Non ama sottomettersi agli ordini, pensa che vi sia una strada meno faticosa da percorrere per raggiungere i propri obiettivi. Ma tale atteggiamento avventato e strafottente lo rende una facile preda per chi ne sa più di lui per astuzia. Giufà non è cattivo, semplicemente, non ha voglia di impegnarsi troppo nella fatica. Ama la vita comoda e cerca sempre scorciatoie. La tecnica delle storie che lo vedono protagonista risponde a modelli narrativi tipici della fabula che culmina in risposte etiche e di apprendimento, su ciò che è bene e ciò che è male affondando le radici nell’humus della tradizione greco-latina, arricchita lungo il corso dei secoli da quella araba e da quella giudaico-cristiana.
Nei paesi venuti a contatto con la ricca cultura del Mediterraneo, ha assunto nomi diversi. A Piana degli Albanesi in Sicilia Giuvà; in Calabria Jugali, Juvadi (abbrev. Juvà), Giuvali, Jucà; a Roma, nelle Marche e in Toscana Giuccà; in Sardegna Gioffah; a Napoli Vardiello; in Piemonte Simonett; a Venezia El mato, in Lombardia Meneghino; a Bologna e in tutto il nord-Italia Bertoldino; Goha in Egitto; a Malta Giohan; in Spagna Juan el tonto; in Francia Jean l’imbecil; in Germania Der dumme Hans; in Norvegia Matthis lo scemo.
Giufà sarebbe nato, però, nell’XI secolo nella penisola Anatolica – odierna Turchia – e sarebbe esistito realmente. Si tramanda che fosse uomo assai originale, certo Nasreddin Hoca – Maestro Nasreddin –. Nell’area Araba si diffuse quindi con il nome di Jeufa/Jusuf, tramandato in quella siciliana come Giufà.
Il ragazzetto ha come punto di riferimento educativo una madre, cresciuta tra credenze e superstizioni, trasmesse oralmente anche al figlio, il quale a sua volta ha un repertorio fraseologico stereotipato. Giufà induce al riso e a tenera compassione, chi ascolta le sue avventure perché, non è malvagio ma sciocco. Un ingenuo che sa trarsi d’impaccio per un atavico istinto di sopravvivenza, lo stesso a cui noi isolani ci aggrappiamo nei più svariati frangenti.
Se certa, è l’origine araba di Giufà, le prime testimonianze scritte risalgono al XVII secolo. Furono due poeti siciliani, Venerandu Ganci e Mamo da Cianciana, che posero in versi le storie di Giufà. Si arricchiva pertanto di un altro personaggio, questo vasto filone della letteratura popolare.
Nel 1845, una delle storie di Giufà viene tradotta dal siciliano all’italiano. La precedente versione, in vernacolo, era per l’appunto stata trascritta dal poeta e scultore acese Venerando Gangi.
Ma la prima raccolta delle Storie di Giufà è ad opera dell’etnoantropologo palermitano Giuseppe Pitré, il quale nel monumentale lavoro in quattro parti, Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, pubblicato nel 1875, inserisce il Saggio d’una grammatica del dialetto e delle parlate siciliane, che contiene anche le avventure di Giufà.
Tra gli episodi, che vedono coinvolto Giufà, uno è tra quelli a me più cari per vari ordini di ragioni che non sto qui a dire. Giufà e la luna ha sempre sortito in me un fascino quasi ipnotico. Credo che ciò si debba alla vera protagonista della narrazione rocambolesca e poetica: la Luna.
Il testo che riporto in italiano, narra:
«Giufà una notte, passando vicino ad un pozzo, vide la luna riflessa nell’acqua. Pensando che fosse caduta dentro decise di salvarla. Prese un secchio, lo legò ad una corda e lo buttò nel pozzo. Quando l’acqua fu ferma e vide la luna riflessa nel secchio cominciò a tirare con tutta la sua forza. Il secchio, salendo rimase, però, impigliato nelle parete del pozzo. Allora Giufà si mise a tirare ancora con più forza e tirando, tirando spezzò la corda, finì a gambe all’aria e cadde a terra. Alzando gli occhi verso l’alto, per cercare un appiglio per rialzarsi, vide nel cielo la luna. La sua soddisfazione fu grande e disse a se stesso ad alta voce:
“Sono caduto per terra e mi sono un po’ ammaccato, ma, in compenso, ho salvato la luna dall’annegamento!”».
Vi è anche un altro racconto dove Giufà parla alla luna, magneticamente attratto dalla sua misteriosa bellezza.
«Una mattina Giufà se ne andò per erbe e prima di tornare in paese era già notte. Mentre camminava c’era la luna annuvolata, e un po’ s’affacciava, un po’ spariva. Giufà si sedette su una pietra e guardava affacciarsi e sparire la luna e un po’ le diceva: — Vieni fuori, vieni fuori, — un po’: — Nasconditi, nasconditi, — e non la smetteva più di dire: — Vieni fuori! Nasconditi!».
La luna, nei poeti e nei narratori, da tempo immemore ha suscitato ammirazione e curiosità. Un grande intellettuale, Italo Calvino, ne è rimasto soggiogato. Ed era a conoscenza anche delle Storie di Giufà. Nelle Fiabe italiane, raccolta di duecento fiabe provenienti dalla tradizione popolare italiana, pubblicata per la prima volta nel 1956, da Einaudi, Calvino ha trascritto e inserito le fiabe da tutte le regioni e dai vari dialetti, da nord a sud.
Sempre a proposito di luna, il 24 dicembre 1967, Anna Maria Ortese sulle pagine del «Corriere della Sera» scrive una lettera, indirizzandola proprio a Calvino. La scrittrice è angosciata dal nuovo mondo che si sta delineando per via dell’aumento esponenziale delle nuove scoperte tecnologiche. In particolare, fa riferimento alle nuove sonde e ai satelliti inviati nello spazio.
Calvino in risposta alla Ortese, dichiara:
«Chi ama la luna non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più».
Ed invece, io desidero lasciarvi, in compagnia di uno dei passaggi più intensi, carichi di speranza e volontà di vita, contenuti in Ciàula scopre la Luna, celeberrima novella del 1907 di Luigi Pirandello, presente nella raccolta Novelle per un anno, e pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera», il 29 dicembre 1912, affinché voi, insieme ai vostri bimbi e ai vostri ragazzi, possiate riscoprire la magia, custodita nelle fiabe e nelle storie della nostra ricca tradizione.
«Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore».