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A “CAMERE CON VISTA”, IL RITORNO DI PEPPE GAMBINO

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Peppe Gambino

Venerdì 22 gennaio 2021, ad un anno esatto dalla sua visita all’archivio storico di Taormina, Peppe Gambino è tornato a far visita agli amici di “Taoclick” e della fotografia. Stavolta, la chiacchierata si è svolta in streaming a “Camere con Vista”, il format a cura di “Taoclick”, “Rocco Bertè-Foto e Video”, “Rogika’s Friends” e il media partner “JonicaReporter” diretto da Valeria Brancato. Il gruppo di lavoro è composto da: Alfio Barca; Rocco Bertè; Roberto Mendolia (Rogika) e Augusto Filistad, presenza importante che regola e disciplina il dietro le quinte.

Alfio Barca e sua Maestà L’Etna – In “Le novità e gli accadimenti dal mondo della fotografia” Alfio Barca, stavolta, ha posto l’accento su un testo che vede protagonista “A Muntagna”, l’Etna. Un volume di carattere storico e geologico contenente una raccolta di fotografie, oggi avvolte dal mistero. Il libro di Orazio Silvestri e Tommaso Tagliarini, a cura di Guglielmo Manitta, ETNA eruzione e terremoto del maggio-giugno 1879, Convivio editore, 2017, è una ristampa storica.

Si tratta di un album fotografico e contempla una serie di fotografie fatte per incarico del Real Governo italiano sotto la direzione del Prof. Orazio Silvestri. Uno degli originali si trova presso la Biblioteca Malaroda del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Torino. Le immagini presentate sono relative a due eventi assai importanti per la storia dell’Etna: l’eruzione del 26 maggio – 6 giugno 1879, che partì dalle sommità fino a raggiungere Passopisciaro, nel territorio di Castiglione di Sicilia, e il terremoto del 17 giugno dello stesso anno, che interessò principalmente Bongiardo, frazione del comune di Santa Venerina. Le fotografie, affermò lo stesso Orazio Silvestri, «furono […] dirette per conservare memoria della grande eruzione etnea del maggio-giugno 1879 e dei luoghi funestati da questa e dai successivi terremoti». Un documento di enorme carattere storico ma anche un omaggio a questo vulcano, di cui alcuni suoi crateri recano, e non a caso, il nome del Silvestri. Dall’album si evince la complessità di un territorio modificato geograficamente e antropicamente, per adattarvisi e poter vivere. Una terra ricca, che dà e toglie in egual misura nel manifestarsi dell’essere stesso della Natura. Nel volume presentato si apprende che i contenuti sono stati «per la prima volta riproposti integralmente e, presumibilmente, corrispondono a ciò che Silvestri consegnò al Real Governo, in quanto al momento risulta irreperibile il raccoglitore allora depositato presso gli archivi statali». Un testo per appassionati e storiografi.

Una nota a parte meritano invece i fratelli Tagliarini, fondamentali per la storia della fotografia in Sicilia. Furono attivi a Palermo, negli studi di via Butera 87 e via Macqueda 217, negli anni Ottanta dell’Ottocento. Specializzati in vedute della Sicilia, una serie di loro stampe fotografiche sono conservate nel fondo Giglioli dell’Istituto Geografico Militare di Firenze. Nello stesso periodo sempre a Palermo, opera un altro grande fotografo siciliano: Giuseppe Incorpora.

Infine, ulteriore curiosità sul tipo di stampa usata in quel periodo, che per ciò che concerne il volume di Silvestri e Tagliarini, lascia aperta la domanda se esista un archivio originale oppure sia perso per sempre. La stampa su albumina, deve la sua invenzione nel 1850 a Louis Désiré Blanquart-Evrard. In breve tempo diviene il primo medium fotografico prodotto commercialmente su base industriale. Il nome deriva dal fatto che la cosiddetta chiara d’uovo, l’albume appunto, veniva adoperato come legante per creare un’emulsione a base di sali d’argento da stendere su fogli di carta. Del nitrato d’argento veniva fatto reagire con cloruro di sodio presente nell’albume, formando cloruro d’argento. Il cloruro d’argento, instabile alla luce, rendeva possibile la formazione di immagini fotografiche, mediante la stampa a contatto, di negativi posti sopra il foglio di carta trattato con questo sistema. Questa tecnica è molto popolare nella seconda metà dell’Ottocento. Il formato di stampa più diffuso è la Carte de Visite, proposta da André-Adolphe-Eugène Disdéri.

Per ulteriori approfondimenti su questo genere fotografico, suggerisco di rivolgersi a Roberto Mendolia, il quale, proprio in questo periodo, sta conducendo una serie di studi e di sperimentazioni, in chiave artistico-contemporanea sulle Carte de Visite.

Peppe Gambino e la fotografia come documento e memoria – Dicevo in apertura, che ad un anno esatto, giorno più giorno meno (era il 24 gennaio del 2019, lo scorso venerdì era il 22 gennaio), Peppe Gambino è tornato a raccontarci di sé, dei suoi progetti e della stretta correlazione tra il suo modo di fare fotografia e gli altri, immersi nel tessuto sociale in cui lui stesso vive e sperimenta la vita. Quando lo conobbi insieme alle sue donne lo scorso anno, molti di voi già lo sanno, nacque una meravigliosa amicizia. Tanto che affettuosamente per tutti loro, io sono la “zia Lisa”, e non confondiamolo con il quartiere catanese perché lo so che la battuta “corre e ricorre”. Voglio un bene immenso a loro e loro, con semplice autenticità, ricambiano il bene. Certo, sto virus ci ha stoppato, però noi abbiamo in testa varie cose da portare avanti ed anche se lenti lenti ci riusciremo. Ce lo siamo detti anche quando durante il lockdown di marzo, intervistai Peppe o “Peppuzzo” come lo chiamo io.

La nota biografica su questo talentuoso fotografo riporta diversi dati importanti:

«Nato a Palermo nel 1979, nel 2005, trova nella fotografia il suo mezzo d’espressione. Si interessa di fotografia documentaria e reportage sociali. Al centro del suo lavoro c’è la sua terra: la Sicilia, della quale ama descrivere il territorio e le persone che vivono al Sud. Ha iniziato da autodidatta, studiando le foto dei grandi Fotografi e col tempo ha perfezionato la tecnica frequentando le letture portfolio e i workshop di Angelo Maria Turetta e del Fotoreporter Valerio Bispuri. Dal 2016, fa parte dell’Associazione “Eikon Culture” con la quale ha partecipato con il progetto “HospITALYti” ad una esposizione a Porto Empedocle e a San Benedetto del Tronto».

Peppuzzo, lo ha detto e ridetto anche a “Camere con Vista”:

La fotografia è per me, saper raccontare. La mia fotografia è mettere in luce la realtà sociale. Ogni mio progetto è collegato ed è narrazione. Uso il bianco e nero. Magari è un bianco e nero ‘sporco’. La tecnica, una volta acquisita la abbandoni. Vado di pancia. C’è poca postproduzione nelle mie foto. Ho iniziato a usare la macchina fotografica per la fototerapia. A tredici anni, la perdita del papà, mi ha sconvolto tantissimo, ero diventato un ribelle. Poi ho abbandonato la fotografia ma l’ho ritrovata a partire dal 2005 e da allora ha fatto parte della mia vita. Nel 2010, ad esempio, mi sono occupato d’immigrazione, in collaborazione con la “Croce Rossa”, entrando dentro la realtà dei centri. Nella Missione di “Biagio Conte”, con cui ho collaborato, ho incontrato Augustine e me lo sono portato a casa. Lui ha vissuto nella mia famiglia ed è diventato parte di essa. Ha insegnato l’inglese alle mie figlie e loro gli hanno insegnato l’italiano. Da qui, è nato il documento visivo e la storia su questo ragazzo nigeriano. La mia fotografia è semplice e deve arrivare. Augustine ha una storia pesante. Scappato via dal suo paese quando è arrivato in uno dei lager libici ha subito torture fino allo scalpo con un machete. Fuggito dalla sua terra perché omosessuale, passato dalla Libia e trattenuto, si è ritrovato a stare rinchiuso in un campo che era un lager. Poi riuscito ad abbandonare la Libia, è sopravvissuto al naufragio del barcone che li trasportava, ed è stato mandato in uno dei centri di accoglienza, che spesso poco hanno dei requisiti richiesti. Augustine porta sempre il cappellino e sente sempre freddo, ma oggi ha ottenuto il permesso per l’asilo politico come “rifugiato” e lavora. Ci sentiamo e non finisce mai di ringraziarci per quello che abbiamo fatto. Questa per me è l’interazione e l’integrazione, e questo documento attraverso le mie foto.

Gambino ha frequentato importanti corsi di fotografia in giro per l’Italia, legge e studia tanto. Tra i suoi ispiratori c’è Ansel Adams, fotografo statunitense, che ha reso la fotografia paesaggistica, poesia. Adams nel 1932 fonda il gruppo f/64. Il nome indica la minima apertura del diaframma, una tecnica difficile, che consente di allargare la profondità di campo, ridurre lo sfumato dello sfondo, e massimizzare i dettagli della foto. L’intento del gruppo è quello di cercare di riunire tutti gli esponenti della Straight Photography, come Edwards, Holder, Lavenson e Kanaga. Inoltre per Adams «ogni fotografia è il riflesso del proprio autore. Più egli studierà, scatterà fotografie, leggerà libri, guarderà film e ascolterà musica, più crescerà in quanto essere umano e il risultato farà la differenza. Nessun altro potrà ottenere la stessa fotografia perché avrà un retaggio talmente diverso e una personale gestione dello scatto». Nella Straight Photography è molto importante lasciare integra la fotografia, senza sottoporla a superflue manipolazioni digitali. Analogo l’intento di Gambino, che ha sicuramente studiato il lavoro di Adams sulla detenzione delle minoranze di origine nipponica. Una visione della fotografia che ritrae la realtà ma che ne sottolinea gli aspetti di positività e di bellezza. Un altro mentore, per il fotografo palermitano, è Vito Finocchiaro che su Peppe ha dichiarato: «Peppe è un mio amico. Ed ho pochi amici. Peppe ha coraggio. Il fotografo deve mantenere una certa distanza. Ma in questo caso ha fatto la scelta più giusta per raccontare Luna».

E torno a dire, di nuovo, del mio legame con Peppuzzo. Noi ci scambiamo saluti, idee, ci teniamo, saldi, in contatto. Ho bisogno di sapere che stanno bene, tutti loro, mi devono dare notizie o mi preoccupo. «Come stanno le ragazze, e Laura e tu, come state?». Se tarda troppo a rispondere, Matruzza bedda!, divento peggio di una zia ‘zitella’.

Così l’altra volta, tra una notizia e l’altra, ho detto a Peppuzzo che avrei voluto intervistarlo, perché mi sarebbe piaciuto sapere come lui stesse affrontando sta faccenda del virus. Quando venerdì 22 è stato ospite di “Camere con Vista” ed ha presentato i progetti che ha in corso, noi già ci eravamo fatti diverse chiacchierate in cui mi ha detto:

Ho ripreso a studiare Fotogiornalismo e ad immaginare nuovi progetti, ma tutto questo isolamento lascerà dei segni su ognuno di noi e ci vorrà tempo per cancellare paure e insicurezze… Ho documentato questo periodo ma poi ho avuto un blocco emotivo… So come ti senti… Passerà Lisa… Il tempo guarisce tutto…

Tra amici ci si confida, e tra persone di famiglia ci si scambiano i pensieri, le paure, e la voglia di farcela ad ogni costo. Bisogna non perdere di vista, chi ci sta a cuore. Ci vuole un cuore immenso in questo periodo, un cuore grande quanto tutto il mondo. Noi, frattanto, partiamo dai nostri di cuori affratellati.

Peppuzzo lo ha espresso anche nel racconto fatto l’altro pomeriggio:

Dopo la presentazione a Taormina del mio long project “Suddenly” che affronta il tema dell’epilessia, ho continuato a documentarmi e a tessere contatti per cominciare il secondo capitolo, sulla Ricerca e le terapie sperimentali in campo epilettico. Purtroppo, la pandemia ha rotto tutti gli schemi e i programmi fatti, e ho dovuto riorganizzare il mio metodo e il mio approccio a questo progetto, parallelamente però questa crisi mi è servita per occuparmi del sociale nella mia città: Palermo. Mi sono documentato su quello che stava accadendo e sulle ripercussioni sociali che stava causando. Ho chiamato Francesca, un’amica. Una donna che del sociale ha fatto il suo motto di vita, mettendomi a disposizione delle associazioni scese in campo per aiutare tutte quelle famiglie, soprattutto nelle periferie e nel centro storico, che con il “Lockdown” si sono ritrovate senza reddito. Ho trascorso il mio tempo libero presso l’associazione “Kala Onlus”, che insieme a “SOS Ballarò”, si è occupata dell’emergenza alimentare grazie al lavoro di uomini e donne come: Valeria Leonardi, Giuseppe Bova, Marco Sorrentino e Massimo Castiglia, coadiuvando un esercito di volontari come Francesca Leone, Marina, Giulia, Melania, che hanno distribuito dalla mattina alla sera generi alimentari. Ho sentito la necessità di dover documentare tutto quello che questa pandemia stava causando per levare dalla testa della gente, che è la “Mafia” che fa la spesa in questi quartieri, quando la realtà di fronte ad un Stato assente o in ritardo è un’altra: quella delle associazioni dei cittadini onesti, che creano comunità e credono nel cambiamento.

Infatti ne è venuto fuori VOLONTARI COVID, il reportage di cui io avevo già visionato qualche scatto inviatomi, e poi continua nel progetto ZEN ZONA ESPANSIONE NORD, nato nel 2006 e in costante evoluzione. Una raccolta documentale per far vedere come davvero «dalla merda possano nascere i fiori». Protagonista: lo Zen di Palermo, quartiere carico di vita e di persone perbene, desiderose di far vedere il loro tessuto di dignità, umanità ed accoglienza. Un luogo multietnico in cui Gambino si è calato perché vive lì a poca distanza, ma nel rispetto dell’altro. Sempre.

Ho fatto varie domande a lui, nel corso del tempo, oltreché l’altro pomeriggio. Le sue risposte, belle, vere, autentiche come la sua meravigliosa parlata palermitana che mette allegria, sono da leggere e rileggere.

La tua fotografia ha sempre uno sguardo sul sociale e sulle fragilità umane, quanto la tua famiglia ti sostiene in questo?

Sono una persona con un carattere molto introverso ed estremamente sensibile. Non riesco ad esternare le emozioni con la parola o la scrittura. La fotografia mi ha aiutato a superare questi limiti, a indagare l’animo umano, ad entrare dentro le storie e a viverle, lasciando sempre qualcosa di me; prendendo a mia volta tanto, dalle esperienze vissute, per trasformarle sempre in messaggi positivi anche laddove c’è sofferenza e dolore. In questo percorso, Laura, la mia compagna di vita mi ha sempre sostenuto e incoraggiato a continuare a fare quello che sentivo, a essere sempre curioso e con lei anche le mie ragazze: Luna e Maya.

Tu hai un uso del Bianco e Nero graffiante e profondo. Non avresti mai pensato di farle a colori ste foto?

Nella mia terra ci sono già tanti colori. Avevo bisogno di desaturare. L’emozione salta fuori dal Bianco e Nero. Io fotografo di pancia, l’ho detto anche prima. Prima di scattare previsualizzo. Non scatto subito. Mi piace conoscere, entrare dentro le realtà, parlare con le persone. Sono uno di loro e se capita che dimentico di avere la macchina fotografica perché svolgo il ruolo del volontario, sono loro che me lo ricordano e mi dicono: “Ma foto non ne scatti?”. Anche quando ho fatto “Suddenly” ad un certo punto ho dovuto scegliere se essere padre o fotografo. Vedere le crisi epilettiche di Luna, mi portava ad abbandonare la macchina fotografica, soprattutto all’inizio, perché io dovevo aiutare mia figlia. Poi però con il sostegno di Laura, ho deciso di fotografare e piangevo dietro la macchina. Piangevo perché c’era mia figlia lì. Ma ho posto il giusto distacco per portare questa testimonianza.

Tecnicamente cosa usi per le foto? Obiettivo, etc.

Uso un 28 o 35 mm, un grandangolo, il flash se necessario. Io devo starci dentro, vicino, inquadrare. Bisogna stamparle le foto, fare l’editing. Stampare è importante. Scegliere per un progetto in corso è difficile. Trovo sempre qualche scatto che magari prima non avevo considerato e mi dico: «questo è interessante, va stampato».

Peppuzzo, io questo articolo l’ho finito, so che tu, Laura e le picciridde state bene, nonostante la DAD, le restrizioni, i camurrii, a genti ca è bestia. Noi abbiamo un grande tesoro: il nostro bene reciproco e so che anche gli altri amici di “Taoclick” ti vogliono bene. In particolare, devo ammetterlo, dobbiamo ringraziare quell’impunito di Rogika per averci fatto conoscere. Già lo vedo, che sorride soddisfatto. Però lui ha ragione quando dice che «la fotografia è amicizia e dialogo».

Peppuzzo, speriamo di riabbracciarci presto e come dico io: in presenza e senza DAD.

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