Ho messo su La cura di Franco Battiato per sentire il tocco giusto. Chi pratica scrittura, parole, immagini, universi di senso, che a noi umani è stato affidato come compito per restituire i contorni al mondo, ha un tocco personale in ciò che fa. La musica, è essa stessa scrittura e mi predispone a trovare il tocco giusto.
“CAMERE CON VISTA” procede simile a un viaggio in treno. Ha le sue tappe, le sue fermate, viaggiatori salgono e scendono. A me piace stare sempre dal lato finestrino. In un’altalena di ritmi tra l’osservazione e la perdita di me. Questo ciò che provo ad ogni incontro. Nato dalle chiacchierate di un gruppo di amici che hanno accolto l’idea di Rocco Bertè – moderatore in tandem con il curatore Roberto Mendolia (Rogika) – “CAMERE CON VISTA” è diventato uno spazio aperto a tutti. Siamo come inquilini e dirimpettai che si affacciano alle finestre delle proprie case a far quattro chiacchiere. L’esigenza del periodo di chiusura forzata per proteggerci dal nemico invisibile, il virus, ha richiesto forze e strategie differenti in ogni campo del sapere umano. Ed ecco, una proposta per lasciare che il respiro delle parole e delle immagini potesse accompagnarci, in amicizia. L’associazione fotografica “Taoclick” in prima linea, con il prezioso contributo di Alfio Barca e Augusto Filistad, per far sì che la macchina funzioni bene, e il giornale “JonicaReporter”, diretto da Valeria Brancato, in un affettuoso sostegno come media partner.
Giovedì 21 maggio, Peppe Ferreri e domenica 24 maggio, Ornella Mazzola insieme ad Andrea Petrosino. Allora, pensavo a quale potesse essere “il tocco giusto” per scrivere questo approfondimento e mi è venuto in mente Battiato e La cura. Cura per il proprio lavoro, cura per le persone amate. Amore e umanità in ogni sua declinazione di toni e sfumature. Colori e Bianco e Nero, strumenti usati e post produzione fotografica tutto al servizio per narrare le persone, le vite che scorrono e quelle che si cristallizzano in immobilità predefinite. Lo scorrere del tempo – creatura umana – come lo è la natura stessa dell’uomo, che transita e si avvia al silenzio dell’assenza. La fotografia è l’intento di far parlare gli altri e i luoghi che abitano o abbandonano per altri luoghi, fino all’ultimo viaggio: la dipartita. Tessere di un mosaico, le immagini sono un susseguirsi di ricordi, memorie strappate all’oblìo o volutamente restituite al buio. Le foto si possono conservare ma c’è chi sceglie di accanirsi su di esse, facendole a brandelli. Sono lettere d’amore del tempo e vivono nel tempo, che ad esse è concesso.
Giovedì 21, Peppe Ferreri ci ha offerto una lezione che va oltre la fotografia e conduce dritta al cuore delle persone. Lo ha fatto con l’ausilio delle sue fotografie e del suo racconto, “Il mio punto di vista”, costruito sul desiderio di osservare ciò che ha attorno con l’emozione della prima volta. Il primo bacio o la prima volta a far l’amore, questo ho visto in lui. L’amore per la moglie che si rinnova giorno dopo giorno in una quotidianità che riserva sempre attimi di meraviglia. La sua “musa” gli fa sbrilluccicare gli occhi e tremare la voce. L’amore di un padre verso i figli che ne hanno seguito le orme così come lui prima ha seguito quelle del padre, e prima di lui, suo padre ha seguito quelle del nonno. Ascoltandolo, mi è tornata alla mente la lunga storia delle nostre botteghe artigiane o di quelle d’arte dove si iniziava con l’apprendistato e si portava avanti il mestiere, di generazione in generazione. Gli insegnamenti, gli errori che ciascuno deve assumersi la responsabilità di fare. Ho ripensato alla scuola di Gagini, che decise di venire qui nel XV secolo, di metter su famiglia e di lasciare in eredità il sapere del fare ai figli, e dopo di loro ai figli di questi.
La scheda di descrizione della famiglia Ferreri lo spiega senza lasciar adito a fraintendimenti:
«Peppe Ferreri & Sons Photographers è uno studio fotografico di Gela nato dalla passione di Peppe titolare dello studio e figlio d’arte. Fu suo padre infatti a trasmettergli l’amore per la fotografia sin da bambino, quando seguendolo durante i servizi fotografici, ha potuto apprendere e assimilare tutti i trucchi del mestiere. Con gli anni la passione di Peppe Ferreri si è trasformata in esperienza, riconosciuta a livello internazionale grazie al conferimento di prestigiosi premi di settore come QIP “Qualified Italian Photographer”, del Fiof “Fondo Internazionale Orvieto Fotografia” fino all’elezione a presidente dell’associazione fotografi siciliani con cui organizza eventi e workshop formativi».
Ma sono le parole di Marco, uno dei figli di Peppe, a farci entrare dentro questa famiglia, in un’intervista rilasciata a Fabrizio Parisi, nel maggio 2017, per il “Quotidiano di Gela”, in cui spiega chi è la sua famiglia.
«Il nonno Lillo, originario di Ravanusa, lasciò la famiglia ad 8 anni per andare a Palermo. Tornò nella sua città a 14 anni. Era già un fotografo formato. Peppe Ferreri, il figlio, ha proseguito nella sua passione, e da anni anche Calogero e Marco hanno le loro attività professionali di successo. […] “La tecnologia non ha reso tutti fotografi, ma solamente capaci di catturare immagini – dice Marco Ferreri – Tutti abbiamo una penna ma non siamo tutti scrittori e poeti. Il rivelarsi dell’immagine sulla pellicola è un momento magico e misterioso. Oggi l’immagine è immediatezza e condivisione”».
Peppe Ferreri ha padronanza della tecnica ma ciò che dà il sapore e l’odore alle sue fotografie è l’empatia. Connettersi, entrare nell’animo dell’altro e farlo proprio, in una comunione del sentire. Ciò traspare nelle luci delle ambientazioni urbane, dove le ombre in movimento svelano i pensieri. Il paesaggio, la “Street” il ritratto, i dettagli di una mano che accoglierà un anello congiunto nella promessa “finché morte non ci separi”. Il desiderio di fotografare i Castelli di Sicilia e di andare a vedere l’Aurora Boreale insieme alla compagna di vita. Non nascondere i problemi derivati dalla malattia, la sclerosi multipla, che da anni lo fa circolare con un’attrezzata carrozzina, cogliere piuttosto le opportunità di una visione e di un fare differente. Sia nel lavoro di studio sia nella vita e durante i viaggi. Vecchia scuola, quella di Peppe. Da ragazzino a seguire il padre durante le cerimonie. Dalla pellicola al digitale; dalla stampa in camera oscura perché le foto si devono stampare. Conosciuto in ambito nazionale e internazionale, nelle sue fotografie – è geloso del suo lavoro ma sa condividere le esperienze – si trovano non solo armonie ma anche contrasti. Quelli del benessere sociale con gli angoli occupati dai diseredati. Gli ultimi. Nelle città, mentre già sposta l’attenzione ai borghi, all’umanità che ancora e nonostante tutto, conserva una semplicità primigenia.
Peppe Ferreri racconta dell’umanità e lo stesso fanno Ornella Mazzola e Andrea Petrosino, ospiti domenica 24.
Mi piace salutare Ornella dicendole che “è bedda, duci e zuccarata” la definisce bene. Nel contributo del novembre dello scorso anno il titolo che ho scelto, a seguito di uno degli incontri all’archivio storico organizzati da “Taoclick”, era “Ornella Mazzola. Una donna autentica ammantata di timidezza”.
Domenica ha aperto l’incontro parlando di “Females” il progetto che vede al centro le donne e in particolare, le donne della sua famiglia e come ha detto Andrea Petrosino, suo compagno anche nella vita, «fotografare i familiari non è affatto facile».
Classe ‘84, palermitana. Ha studiato presso l’Università “La Sapienza” di Roma cinema documentario, fotografia e storia dell’arte. Vincitrice qualche anno fa di una borsa di studio presso la “Scuola Romana di Fotografia”, che le ha dato l’input per approfondire da autodidatta la passione per la fotografia. Fa parte nel 2018 del progetto “égliselab”, “18 esplorazioni” a cura di Benedetta Donato, a Palermo. Il progetto è stato inserito nell’ambito di “Palermo capitale della cultura 2018” e ha visto protagonisti i fotografi contemporanei siciliani. Un’altra presenza fondamentale nella vita di Ornella è stata quella di Vittorio De Seta. Un rapporto nonno-nipote data l’età avanzata di De Seta, quando lo intervistò per la tesi, con il quale nacque grande affetto e collaborazione.
Ho rivisto con piacere seppur virtualmente Ornella e Andrea, mi è piaciuto molto ascoltarli parlare e confrontarsi su progetti individuali e condivisi. Ed ho ritrovato intatte le medesime impressioni avute un anno fa e che ho scritto in quell’articolo.
«Ciò che di prepotenza si impone alla mia attenzione, è la naturale timidezza di questa giovane donna. Timidezza vera, palpabile e sensibile che ritengo sia la sua forza sebbene a prima vista rasenti l’ossimoro. In realtà è proprio così. Ornella Mazzola ha una bellezza gentile che definirei rinascimentale nei tratti, e si mostra ammantata di timidezza. Timidezza che non la copre ma ne rivela bravura e passioni. Lei parla, si blocca, ma ci fa entrare dentro il suo mondo. Dopo aver illustrato “Females”, Rogika le chiede – data la sua preparazione in storia dell’arte – “quanto abbia fatto tesoro dell’esperienza della luce in Caravaggio” e lei risponde che
“Si tratta di un influsso inconsapevole. La fotografia è luce e il cinema ha avuto anch’esso un ruolo importante, tanto quanto la storia dell’arte”. Su “Females” è chiara quasi istintiva. La trovo luminosa nel mostrare le emozioni che le salgono su fino a regalar lacrime. Lacrime di amore e di affetti. Ornella Mazzola racconta di sé e del suo mondo:
“Females” è un racconto sulle donne che compongono il nucleo della mia famiglia. La mia famiglia vede le donne in superiorità numerica, toccano tutte le generazioni e i ruoli al suo interno. È un lavoro a lungo termine che consiste nel collezionare scene intime, dettagli, rivelazioni emotive della nostra vita. Sono momenti di calma o profonda emozione, sono momenti silenziosi e introspettivi. La Sicilia è l’altra protagonista: gli interni, le tende, i pizzi, i fiori, la luce, le ombre. Ho iniziato a fotografare le donne della mia famiglia un po’di anni fa senza avere un progetto in mente. Fotografarle era un modo per avvicinarmi a loro e viverle a una distanza accorciata, in silenzio e in punta di piedi, e forse per dare vita, tramite le fotografie, all’universo del mio immaginario in cui le ho inserite fin fa bambina. Le donne della mia famiglia sono donne siciliane, caparbie, di temperamento, ma anche fragili, con universi molto complessi. Ci sono differenze generazionali, storiche, caratteriali, emotive e tutto ciò è per me una miniera da cui non mi stancherò mai di attingere. Vorrei fosse un lavoro che mi accompagnasse per tutta la vita, come un grande album di famiglia molto personale. Sono un’autodidatta non ho mai seguito scuole. La fotografia per me è libertà. La fotografia deve far emozionare le persone.
Un progetto “Females” che unisce in una struttura matriarcale le donne della famiglia. E l’acme emotivo si tocca quando racconta della perdita della nonna, che segna la “chiusura di un capitolo” e dà l’avvio a nuovi percorsi. L’album di “Females” ha uno stile a colori ed è un misto tra reportage e messa in posa da ritratto. Lo scorrere delle immagini mi suggerisce Le tre età della donna di Gustav Klimt del 1905. Il dipinto rivisita simbolicamente le tre fasi della vita femminile: l’infanzia, la maternità e la vecchiaia. La narrazione della Mazzola procede in una sequenza a metà strada tra il pittorico e la sceneggiatura documentaristica, ma se volessi avere un colpo d’occhio che funga da istantanea, ricorrerei senz’altro al quadro Di Klimt, poiché il filo invisibile che li lega è il medesimo: la donna; femmina; essere umano. Datrice di vita e custode di memoria sapienziale. Metafora della Vita poiché Donna».
Frattanto, “Females” ha subìto l’arresto da lockdown. Ornella per mesi non ha potuto sentire sulla pelle gli affetti delle sue donne ma ciò ha contribuito a una maggiore consapevolezza e a una maturazione. Si cresce e si impara. Le presenze che diamo per scontate ci si rivelano in tutta la loro radicata importanza e, dunque, le donne di famiglia e la vita di Ornella, che è la loro vita stessa, si sono arricchite di nuove pagine di cui ci ha dato un assaggio. Lavori a lungo termine, sentimenti, umanità ed empatia tornano nella delicata armonia delle immagini di Ornella Mazzola che naviga tra poesia e romanzo generazionale, caro alla letteratura sudamericana. Sino alla “poesia vivente” dell’altra femmina, tanto opulenta e ingombrante quanto chiusa e diffidente, Palermo con le sue donne. Colore e Bianco e Nero, luogo di accesi e oscuri contrasti, tra fame di popolo e borghesia benpensante, ancorata a incrostate eredità da aristocrazia decadente. Donna è Palermo, signora salottiera e puttana, tra vicoli multirazziali e stanze scrostate dove manca l’acqua. Palermo è sangue, e se è vero che Caravaggio cercava il vero sacro nei sobborghi del profano, Ornella sa che il divino sta lì, nel mezzo tra la luce che si fa buio, e ha gli occhi di una donna.
Umanità, empatia, stare con glia altri il più possibile, nel recupero dell’arte della lentezza per assaporare la visione d’insieme che nasce dai dettagli, torna nella fotografia di Andrea Petrosino, fortemente accomunato con Ornella nella pratica, modus vivendi a Sud, della lentezza. “Due sguardi a confronto”, in un’unione salda, nel porre al centro l’umano e gli umani.
Andrea Petrosino, «nato a Taranto nel dicembre 1978, vive tra Taranto e Palermo. Si laurea in Scienze Politiche, e a 34 anni capisce che è attraverso la Fotografia che vuole raccontare l’umanità che incontra nel suo quotidiano. Inizia a scattare da autodidatta e nel 2013 s’iscrive al Master di Fotogiornalismo, tenuto da Emiliano Mancuso, presso “Officine Fotografiche” di Roma. Presso la stessa scuola prosegue il percorso formativo con la foto-editor de “L’Espresso” Tiziana Faraoni, con la fotografa Lina Pallotta e con la foto-editor Daria Scolamacchia. Dall’ottobre 2016 insegna Fotografia Base e Composizione fotografica a “Officine Fotografiche” Roma. Collabora da free-lance con “L’Espresso” e “Internazionale”. I suoi primi tre lavori a lungo termine “Loro”, “Circum”(secondo posto al “Premio Tabò 2017” e finalista di “Happiness on the move 2019”) e “Case Parcheggio” sono stati scattati tra Roma e Taranto, ed esposti in diversi festival fotografici in Italia e all’estero».
Andrea esordisce, dicendo che lui “ama la fotografia di Ornella”; mentre lo dice, io rivedo gli occhi di Peppe Ferreri che parla della moglie e rispondendo alla mia domanda, afferma: «Mia moglie ha un buon occhio. Prima mi rubava la macchina, ora ne ho preso una anche per lei». Traspare l’amore e si percepisce la complicità. La medesima che leggo negli occhi e sulle labbra di Andrea e negli sguardi di Ornella. Loro parlano, dicono, si raccontano. Insieme a loro indugio tra le righe di quelle vite, che desiderano solo farci avvicinare un po’ di più a chi viene definito in base al luogo in cui abita e non per ciò che porta scritto in faccia e scolpito dentro al petto. Andrea ama i tempi lunghi, studio, conoscenza, interazione con gli altri. In lui un’altra città, Taranto, va detta e mostrata fuori dagli stereotipi, lasciando in circolo le storie di chi non viene ascoltato spesso. E parte da “Circum”, il mar piccolo di Taranto, progetto che prima aveva un altro nome, “Vacanze intelligenti” rimembranza sordiana. Famiglie che si riuniscono ogni estate là. Le ciminiere sullo sfondo. Storie di gente comune perché la classe operaia in questo caso “non va” in Paradiso ma lo cerca dove può. In questa città, tra rosso e arancio, Andrea si è mosso senza fretta e il reportage lo veste molto bene. La scelta del colore o del Bianco e Nero sia in Ornella che in Andrea, come in precedenza per Peppe, sono finalizzate al racconto. In fondo, è come un genere letterario: prosa, racconto, romanzo; poesia, libera o in metrica. Dapprima la mente fotografa e anticipa; ciò che segue si fa immagine e narrazione. Le famiglie del “Circum” sono diventate amiche di Andrea perché a lui interessa lasciare qualcosa di sé, e far suo qualcosa degli altri, per osmosi. Stesso pensiero per le “Case parcheggio”, un altro progetto a lungo termine che vuole crescere e invecchiare insieme a queste persone. Altro punto di unione umana, empatica e affettiva tra Ornella e Andrea, che racconta:
«Le Case Parcheggio furono costruite nel 1980 nel quartiere “Tamburi” di Taranto, noto per la sua vicinanza all’Ilva, il polo siderurgico più grande d’Italia ed una tra le industrie più inquinanti d’Europa. Nate per collocare gli sfollati della Città Vecchia in seguito al terremoto in Irpinia, le Case Parcheggio sarebbero dovute rimanere in piedi per pochi mesi, in attesa di essere sostituite da alloggi a norma di legge. Sono passati quasi quarant’anni, ma quelle case costruite con grandi quantità di catrame e amianto, senza un sistema fognario adeguato, sono ancora lì, a pochi passi dal cimitero comunale e dal gigante siderurgico che si staglia prepotente sullo sfondo. La polvere di minerale utilizzato per produrre acciaio, trasportata dal vento, viene incessantemente respirata dagli abitanti del posto. Si parla spesso a Taranto dei “Wind days”, giorni in cui il vento che soffia da nord spinge le polveri dell’Ilva verso la città. Durante questi giorni si è invitati attraverso ordinanze comunali, a non uscire e ad aerare i locali solo tra le 12 e le 18. Molte scuole della zona restano chiuse e i bambini non possono usufruire dei parchi gioco. In pochissimi qui lavorano per l’Ilva. In compenso tutti hanno respirato e continuano a respirarne ogni giorno i veleni. Per tanti l’unica risposta all’indigenza, al rischio socio-sanitario e ambientale è la religione, la fede in Dio. Per chi ci riesce, un modo di rendere dignitosa la vita all’interno dei piccoli appartamenti è cercare di arredarli in maniera tale da nasconderne le pecche costruttive e abitative. La completa assenza delle istituzioni statali e locali e lo stato di abbandono in cui versa il comprensorio hanno fatto sì che il fenomeno della criminalità in questa zona prendesse sempre più piede. A Taranto chi parla delle “Case Parcheggio” le descrive come un quartiere-ghetto, e molti tarantini non ne conoscono nemmeno l’esistenza. Qui ho conosciuto persone che si sono trovate ad affrontare una vita che aveva poco o niente da offrire, se non il rischio di intraprendere la via dell’illegalità. Qui ho scoperto e vissuto umanità. Ed è questa umanità che ho voluto e che continuerò a raccontare».
La foto della signora seduta di spalle in uno degli spiazzi delle “case Parcheggio” al tramonto, mentre osserva il finire del giorno, somiglia alla scena di un film dove il tempo non esiste più; è onnipresente, invece, la condizione di un attimo perenne del miracolo che non giungerà.
Andrea Petrosino, da marzo 2017, sta portando avanti insieme a Ornella Mazzola il racconto fotografico su un gruppo di ragazzi romani con problematiche psico-fisiche dal titolo “Il Grande Cocomero – Eroi”, seguito dalla foto-editor Maria Teresa Salvati.
Un progetto in cui entrambi sono entrati a far parte del mondo di questi ragazzi e che di nuovo vorrebbero seguire sino alla vecchiaia. Entrati, prima che come fotografi, da volontari sino ad esserlo a tutti gli effetti. I loro “Due sguardi a confronto” imparano l’uno dall’altra e soprattutto imparano dagli altri. Da questi ragazzi, dalle persone, e “Il punto di vista” di Peppe Ferreri incontra il loro, lanciando di rimando a noi un messaggio valevole per ciascuno: “Restiamo Umani”.